LatinAlive, per un latino vivo e inclusivo

 

Dal “latinorum” dei professori-sacerdoti di don Milani all’esperienza inclusiva del latino a scuola

Nella  famosa “Lettera a una professoressa”, don Milani non risparmia critiche all’insegnamento della lingua latina che egli tende a liquidare, anche se non espressamente, come una lingua esclusiva e selettiva, la lingua della borghesia colta e di destra. E’ proprio la destra – ricorda don Milani – a schierarsi a favore della conservazione dell’insegnamento del latino nella nuova scuola media, mentre la sinistra propende per il rinnovamento e punta sulle scienze. La grande assente in questa accesa discussione è l’Italia contadina dei ragazzi di Barbiana, dei contadini del Mugello ai quali – come si legge in un altro passo della lettera – è richiesta la conoscenza e la padronanza quasi perfetta (“i contadini del Mugello dovevano saperlo tutto)” della lingua latina quando “proprio in quell’anno (1962) avevano smesso di pretenderlo Cambridge e Oxford” (Lettera a una professoressa, p. 30).

A rimarcare il carattere “elitario” dell’insegnamento del latino, l’aura di sacralità che avvolge i professori i quali “passavano tra i banchi, solenni come sacerdoti”, depositari di un sapere esclusivo, ma sostanzialmente “morto e sepolto”. Sono “i custodi di un lucignolo spento”, “gente strana” o meglio estranea alla realtà e ai bisogni educativi dei ragazzi delle campagne del Mugello: “Io sgranavo gli occhi su quella gente strana. Non avevo mai incontrato nulla di simile” (p. 30). Gente che applica criteri di selezione piuttosto spicci e “brutali” proprio sulla base della conoscenza del latino, come si legge in un altro passo della lettera: “Lei” – la professoressa del titolo – “me l’ha detto testualmente: vedi il latino non lo sai. Perché non vai a una scuola tecnica?”. Lo studente non potrà fare il maestro, perché non sa il latino.  E’ la conferma della totale estraneità della scuola ai bisogni di studenti il cui retroterra culturale è radicalmente diverso da quello borghese da cui provengono  gli insegnanti “sacerdoti” : “Se vi foste interessati di me quanto bastava per domandarvi di dove venivo, chi ero, dove andavo, il latino vi si sarebbe un po’ sfocato dinanzi agli occhi” (p. 111). Ma per fare un buon maestro serve davvero la conoscenza di una disciplina che poi non si dovrà insegnare? (p.111 e p. 117). E quale latino si insegna? Il latino monolitico delle regole grammaticali che i ragazzi si limitano a memorizzare perché “gli importa solo di passare e di rifare il gioco quando saranno professori” (p. 117).

I tempi sono cambiati, gli scenari sono mutati radicalmente. La scuola ha fatto enormi passi avanti sulla strada dell’inclusione e dell’emancipazione delle fasce sociali più deboli, ma il latino, nonostante il ridimensionamento degli ultimi anni, ha mantenuto pressoché intatto il suo DNA originario di lingua della cultura alta, segno di elezione e di distinzione per chi la conosce, marchio di ignoranza per chi non la capisce. “Ex-post”, “pro reo”, “in camera caritatis” erano alcune delle perle di saggezza latina con cui un ex dirigente della mia scuola, qualche anno fa, amava infiorettare i suoi interventi nei consigli di classe e nei collegi dei docenti, con l’intento di marcare una distanza gerarchica e di affermare il proprio “potere” perché detentore di un sapere “esclusivo”. Una versione moderna del “latinorum” di Renzo o dei “custodi di un lucignolo spento” di cui parla don Milani.

Il dirigente latinista è ormai in pensione, ma lo studente medio che, ancora incerto nella padronanza della lingua madre, si misura con la traduzione di un testo in latino, naufragando non di rado nel mare, tutt’altro che dolce, dell’incomprensibile, è ancora lì con tutte le sue impellenti domande di senso e con tutto il suo disagio. E se a questo bisogno rispondiamo con una valutazione negativa oppure continuando sulla strada dell’insegnamento normativo della lingua, il risultato nella gran parte dei casi (ma non in tutti) è l’esclusione: da una parte una ristretta élite di latinisti ferrati e magari pure appassionati che partecipano ai certamina nazionali o alle Olimpiadi delle lingue classiche, dall’altra una platea variegata di ragazzi che studiano per il voto o che sono indifferenti, demotivati o ancor peggio, in grande difficoltà.

Ma se trasformassimo l’apprendimento del latino in una sfida da affrontare non in totale solitudine, bensì assieme ai propri compagni di viaggio? Se la traduzione o meglio la comprensione di un testo  diventasse un’esperienza cooperativa, di gruppo? E ancora… se l’acquisizione dei fondamenti della lingua avvenisse attraverso il filtro costante (e non sporadico) della storia, della letteratura, della civiltà, delle parole chiave? Magari utilizzando canali non propriamente istituzionali, come videotutorial su YouTube e altre risorse digitali, decisamente più in linea con lo stile di apprendimento dei nativi digitali? Oppure trasformando la classica verifica in un appassionante gioco di squadra? In plain words: se cominciassimo a insegnare il latino mettendo a disposizione dello studente più strumenti di apprendimento e prevedendo momenti di valutazione diversificati del proprio percorso di apprendimento all’insegna di una didattica autenticamente inclusiva, attenta ai bisogni specifici di ognuno? Tutto questo è possibile e mi piacerebbe raccontarvelo nel mio blog. Perché? Perché sono convinta che il latino deve essere per tutti, ma anche perché – tornando a don Milani e alla sua lettera – “è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli” (p. 96). Anche il latino – se insegnato in una dimensione inclusiva e cooperativa – può contribuire a renderci “eguali” e “sovrani”.

 

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